Prima di affrontare il tema, è importante avere chiaro l’ambito entro cui questa ricerca può essere condotta. Si consideri la natura. Osservandola, ci potremmo ad esempio chiedere: perché esistono i funghi velenosi? Come si può vedere a un’osservazione superficiale, essi mostrano avere quelle caratteristiche care alla filosofia tomistica, che afferma che:
pulchra dicuntur quae visa placent
belle sono dette quelle cose che viste destano piacere1Tommaso d’Aquino, Quæstiones Disputatæ, I, q. 5, a. 4, ad 1.
Il fungo, in quanto ente naturale, è anche vero, per cui, sempre secondo Tommaso, esso dovrebbe tendere al buono. Ma se noi lo mangiamo… ci intossichiamo e possiamo addirittura morire!
Potremmo trovare molti altri esempi come questo, che inevitabilmente ci portano a non trovare una risposta alla domanda se il male esista realmente in natura.
Questo esempio, che contiene un errore – e cioè che la natura in quanto tale non è l’ambito di indagine del male – ci riporta a un problema già noto fin dall’antichità e che Plotino aveva così formulato nelle Enneadi:
Coloro che indagano donde derivino i mali agli esseri o a una loro classe
particolare dovrebbero cominciare la loro ricerca col definire il male e la sua
natura. […]
Con quale facoltà si conosca la natura del male è un problema spinoso, dato che
la conoscenza di una cosa si ottiene mediante la rassomiglianza [con la cosa].2Plotino, Enneadi, I, 8, 1, Bompiani, Milano 2000, pag. 149.
Come vedremo sempre più nelle conferenze successive, il piano dell’indagine si sposta sempre più
sull’uomo. Vediamo invece adesso come sia stato posto e quali soluzioni abbia trovato il problema del Male nella filosofia, a partire da quella greca.
Il Male nella filosofia greca
Fino all’avvento dei filosofi, in Grecia la concezione di bene e male era quella che Omero aveva espresso nell’Iliade, dove troviamo nell’ultimo libro un interessante mito con il quale il poeta tenta di spiegare il perché taluni uomini siano malvagi. Il discorso si svolge nel momento in cui Priamo si reca da Achille a supplicare la restituzione del corpo del figlio Ettore:
[…] Stansi di Giove
Sul limitar due dogli, uno del bene,
L’altro del male. A cui d’entrambi ei porga,
Quegli mista col bene ha la sventura.
A cui sol porga del funesto vaso,
Quei va carco d’oltraggi, e lui la dura
Calamitade su la terra incalza,
E ramingo lo manda e disprezzato
Dagli uomini e da’ numi. […]3Omero, Iliade, 662-671, trad. di Vincenzo Monti.
Con questa spiegazione Omero trova una soluzione al perché taluni uomini compiono esclusivamente il male, affermando al contempo che l’altra sola possibilità è quella di avere in dotazione il “misto” di bene e male. Non è dato agli uomini avere in dono solo le qualità provenienti dal vaso del bene.
Con l’avvento della filosofia, inizia una sorta di revisione di tutta la cultura omerica, che tanto ha contribuito alla fondazione della civiltà greca.
Con Socrate si ha una prima esposizione di uno dei pilastri fondamentali della concezione morale greca, che perdura molto a lungo nei secoli, e cioè che “nessuno compie il male volontariamente”, ossia che l’uomo è fondamentalmente buono. Il male per Socrate è generato unicamente dall’ignoranza, di conseguenza la virtù, la qualità che guida l’uomo buono, altro non è che la conoscenza.
Oltre che essere fondamentalmente buono, per Socrate l’uomo e anche naturalmente incline alla felicità, che può essere raggiunta solo attraverso il bene, che presuppone un’azione razionale cosciente e volontaria, basata sul desiderio di conoscenza. Il male, in quanto compiuto per ignoranza, è di conseguenza involontario. Da ultimo ne consegue che chi compie il male non potrà mai essere felice.
Vediamo subito come questa concezione tenda a non considerare chi scelga di non compiere – ovvero omettere – un bene liberamente.
Su questi due dei pilastri fondamentali del pensiero socratico, Platone inizia una ricerca sul bene (e di conseguenza sul male) che parte anzitutto dalla confutazione della concezione omerica sopra citata. Per Platone, infatti, Omero è in errore e con lui tutti i poeti.
Tale posizione viene spesso criticata, poiché non si comprende come possa aver rinnegato un’arte in cui si era cimentato prima di diventare discepolo di Socrate, che tra l’altro teneva in gran conto la poesia che, essendo ispirata divinamente, godeva del privilegio di non dover rispondere ai criteri di verità a cui invece devono sottostare i ragionamenti.
La critica di Platone va però vista nel contesto in cui viene espressa. Egli infatti la formula nel dialogo Repubblica, in cui espone i principi secondo cui si dovrebbe fondare e organizzare uno stato: i filosofi – che per Platone devono diventare i padroni dello Stato – non sono tenuti a ideare dei racconti
mitologici, ma devono avere solo in mente le linee direttive sulle quali costruire uno stato giusto. Pertanto il sommo principio inappellabile che possono porre a base dell’organizzazione sociale è la divinità, che è necessariamente buona e di conseguenza giusta. Secondo Platone in tal modo si toglie ai Custodi della Città la possibilità di azzuffarsi per le “futili” ragioni derivanti dall’interpretazione dei miti (che ai tempi dei greci erano molteplici e spesso discordanti). I poeti pertanto dovrebbero emendare la loro mitologia secondo un criterio morale che attribuisca agli dei solo la possibilità di dispensare il bene.
In tal senso Platone può considerarsi il primo filosofo che pone la teologia – nel significato originario di discorso sul dio – e la teodicea – il discorso sulla giustizia divina – a fondamento della politica, cioè dell’ordine sociale.
Per cui Platone, dopo aver confutato la concezione omerica sull’origine del male, si ricollega a quanto affermato dal suo maestro, affermando che:
[…] nessuno dei sapienti ritiene che ci sia alcun uomo che deliberatamente erri e
commetta azioni brutte e malvagie, ma sanno bene che tutti coloro che
commettono azioni brutte e malvagie, le commettono senza volerlo.4Platone, Protagora, 375 E, in Platone, Tutti gli scritti, Bompiani, Milano 2014, pag. 837.
Traspare anche in queste parole l’eco della lezione di Ermete Trismegisto, che probabilmente Platone ha studiato nel suo viaggio in Egitto, avvenuto dopo la morte di Socrate, e nel quale possiamo trovare:
«Ho dunque dei carnefici in me stesso, o padre?» «E non pochi, figlio mio, ma molti e temibili.» «Non li conosco, padre.» «Questa stessa ignoranza, figlio mio, è un castigo[..]
Il primo di tutti i vizi è proprio quello di ignorare l’esistenza del male, che tiene prigionieri l’anima e lo spirito al mondo della “sensibilità”.5Ermete Trismegisto, Corpus Hermeticum – Libro XIII, BUR, Milano 2006, pag. 239.
Il passo in avanti che Platone compie, rispetto al suo maestro, è quello di dimostrare che da Dio può venire solo il bene, e che pertanto se il male esiste, esso va ricercato altrove.6Cfr. Platone, Repubblica, II, 379 C -379 D, op. cit., pag. 1127 e seg. Dove sia però questo altrove Platone non lo dice, nonostante nel Teeteto venga ribadito che:
non è possibile che i mali scompaiano del tutto – perché è una necessità che ci sia sempre qualcosa di contrapposto al bene –, né possono avere sede tra gli dèi, ma si aggirano nella natura mortale e in questo nostro mondo qui.7Platone, Teeteto, 176 A, op. cit., pag. 224.
Solo verso la fine della sua vita, nel suo ultimo scritto pervenutoci, quello più maturo e ispirato di tutti, egli arriva ad affermare che il male esiste nell’anima dell’uomo, che non è unica – come precedentemente affermato nel sul scritto sull’anima – ma è duplice:
ammettiamone almeno due (anime): quella che è operatrice di bene, e quella che, all’opposto, può operare il male.8Platone, Leggi, X, 896 E, op. cit., pag. 1683.
In generale, però, tutta l’opera di Platone riguardo al bene e al male, conduce all’aporia,9Termine greco che significa letteralmente “strada senza uscita”. ossia all’impossibilita di arrivare con il ragionamento a una definizione precisa e incontrovertibile della natura e conoscibilità del male.
Aristotele sposta il problema del male nel campo dell’agire. Egli prende le considerazioni di Platone e di Socrate come dati di fatto: sulla base di quanto Platone afferma nel Timeo circa l’origine del mondo, egli osserva che il mondo materiale in cui vivono gli uomini è caratterizzato dall’imperfezione, osservabile nel fatto che gli elementi costituenti della materia – acqua, aria, terra e fuoco – sono continuamente soggetti a generazione, alterazione e corruzione; il mondo celeste, d’altro canto, è costituito dall’etere, un elemento immateriale e incorruttibile che lo rende perfetto.
Il male – che per Aristotele è tanto quello compiuto dall’uomo che quello presente in natura, ad esempio sotto forma di calamità – deriva quindi dal fatto che il mondo terrestre è imperfetto, e di conseguenza anche la maggior parte degli eventi che vi accadono.
L’unica possibilità che l’uomo ha di poter discernere tra il bene e il male può venire, secondo lo stagirita, dall’educazione, ovvero dalla conoscenza. Al contrario, l’ignoranza genera errore, ingiustizia e imperfezione, tutte manifestazioni del male.
Scopo della conoscenza è la felicità (eudemonia), che è quindi il sommo bene per l’uomo. Essa si può conseguire attraverso la pratica della virtù (areté), che altro non è che la medietas, il giusto mezzo tra l’eccesso e la mancanza. Attraverso la medietà (mesotes) si possono conquistare la bellezza e a bontà (kalokagathia) che sono i prerequisiti per diventare eccellente (aristos).
La pratica della virtù mira a perfezionare l’anima, che per Aristotele ha tre nature: vegetativa, sensitiva e razionale, e contribuisce a rendere tanto l’uomo che il mondo armonico e proporzionato secondo un giusto peso, numero e misura.
All’opposto, tutto ciò che non è misurabile, o non risponda a criteri di armonia o medietà, ovvero
tutto ciò che è brutto, è di conseguenza malvagio (kakón).
Questo punto di vista su ciò che è male, consente a Plotino di trovare una sintesi in tutta la filosofia che l’ha preceduto e di fornire al contempo una risposta alla domanda iniziale: poiché il bene è ciò che contiene forma in modo armonico, ne segue che la scienza del bene deve necessariamente essere quella che studia le forme armoniche, in tutti i campi.
D’altra parte, secondo i filosofi che l’anno preceduto, il male è invece assenza di bene, pertanto egli
giunge a dire che:
[…] siccome dei contrari una sola è la scienza e il male è contrario al bene, la
scienza del bene sarà quella del male e perciò è necessario che coloro che
vogliono conoscere il male speculino intorno al bene […]10Plotino, Enneadi, I, 8, 1, op. cit., pag. 149.
Rimane però da capire in che modo il male è contrario al bene, se come opposto (come l’inizio alla
fine, o il giorno alla notte) o come la forma alla sua privazione. Ecco allora che la risposta non tarda.
Poco oltre troviamo che:
[…] si può giungere a un’idea del male [concependolo] come la mancanza di misura rispetto alla misura, come l’illimitato rispetto al limite, come l’informe rispetto alla causa formale, come l’essere sempre deficiente all’essere che basta a se stesso, come sempre indeterminato, per nulla stabile, completamente passivo, insaziabile, povertà assoluta […]11Ibidem, I, 8, 3, pag. 151.
Note