L’Antro delle Ninfe, Porfirio

L’Antro delle Ninfe

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Quello che segue è il testo completo de “L’antro delle Ninfe”, di Porfirio di Tiro.

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I

L’antro di Itaca descritto in questi versi da Omero costituisce un enigma:

In capo al porto un ulivo dalla lunga chioma,
vicino a lui l’antro amabile, tenebroso,
sacro alle Ninfe che Naiadi si chiamano.
Dentro [vi] sono crateri ed anfore
di pietra, dove le api serbano il miele.
Lì alti telai di pietra, sui quali le Ninfe
tessono stoffe color porpora, meravigliose a vedersi;
lì ancora acque che sempre scorrono. Due sono le porte,
l’una che scende verso Borea è per gli uomini,
l’altra verso Noto, è per gli dèi; per di là non
entrano gli uomini, ché è la via degli immortali.1

II

Il poeta ha fatto menzione delle cose riferite, non avendole assunte quale risultato di una ricerca [personale sul luogo]; lo dimostrano coloro che hanno dato per iscritto una minuta descrizione dell’isola, non ricordando alcun antro siffatto nell’isola, come afferma Cronio2. D’altra parte è cosa evidente, sarebbe assurdo che uno inventando un antro per licenza poetica, speri di far credere il fortuito e l’inventato col simulare nel paese di Itaca vie per gli uomini e per gli dèi.

Del resto, se non l’uomo, la natura di per sé avrebbe manifestato [una via] per la discesa a tutti gli uomini e un’altra complementare per tutti gli dèi. Poiché il mondo universo è pieno d’uomini e di dèi, l’antro di Itaca è ben lontano dal persuadere che comporti in sé [la via] di discesa per gli dèi e per gli uomini.

III

Fatta questa premessa, Cronio afferma che è evidente, non solo ai saggi ma anche agli ignoranti, che il poeta parla in questi [versi] con un linguaggio allegorico e allusivo, che induce a ricercare qual è la porta per gli uomini e quale quella per gli dèi, e cosa significa questo antro dalle due porte, che si dice sacro alle Ninfe: ad un tempo amabile e tenebroso, non essendo l’oscurità affatto amabile ma piuttosto temibile.

Perché poi non è semplicemente detto sacro alle Ninfe, ma è con tutto rigore attribuito a quelle che “Naiadi si chiamano”? E, ancora, a quale scopo l’impiego di crateri e anfore, non contenenti alcun liquido, nei quali le api serbano il loro miele come in arnie? E quegli alti telai posti [qui] quale dono alle Ninfe, [fatti] non di legno o d’altra materia ma della medesima pietra delle anfore e dei crateri? Ma questo è certo meno difficile [da comprendere]: su questi telai di pietra le Ninfe tessono stoffe color porpora, cosa meravigliosa non solo a vedersi ma anche a sentirsi. Chi infatti crederà che le dee tessano panni color porpora in un oscuro antro su telai di pietra, quando s’intende [poi] che i tessuti medesimi delle dee e le vesti di porpora sono visibili? Oltre a ciò è altresì strano che l’antro abbia due porte, delle quali l’una è preparata per la discesa degli uomini, l’altra invece per gli dèi. E si dice che quella accessibile agli uomini sia volta nella direzione del vento di Borea, quella per gli dèi verso Noto.

E non è di poco conto il dubbio sulla causa per cui abbia attribuito le parti di Settentrione agli uomini, e agli dèi invece quelle di Meridione, e per quale motivo non abbia usato piuttosto l’Oriente e l’Occidente, giacché quasi tutti i templi hanno le statue e gli ingressi volti ad Oriente, e in più, coloro che entrano, guardano ad Occidente, allorché stando dinanzi alle statue tributano agli dèi preghiere e riti.

IV

Benché la narrazione abbondi di siffatte oscurità, non si tratta di una favola inventata per diletto, e nemmeno contiene la descrizione di un luogo reale; tuttavia il poeta, che pone per mistica ragione una pianta d’ulivo vicino [all’antro], vuole attraverso esso altro significare. Certo, anche gli antichi stimarono difficile investigare e spiegare tutto ciò, e noi, che tentiamo ora di svelare le cose del loro tempo, siamo d’accordo con loro. Sembrano pertanto più leggeri quanti, scrivendo la storia di [quel] paese, considerano intera finzione del poeta e l’antro e le cose narrate su quello.

Eccellenti al contrario e accuratissimi quanti descrissero la conformazione di quella terra; e [tra questi] Artemidoro d’Efeso3 scrive nel quinto libro della sua opera divisa in undici libri: “Allontanandosi verso Levante da Panormo, porto di Cefalonia, alla [distanza] di dodici stadi si trova l’isola di Itaca, [che misura] ottantacinque stadi, stretta ed elevata, il cui porto è chiamato Forcino; vi è in esso un “lido nel quale si trova un antro sacro alle Ninfe, dove si dice che i Feaci sbarcarono Ulisse”.

Non sarebbe dunque cosa interamente inventata [quella] di Omero; ma sia che egli abbia semplicemente narrato, sia che v’abbia aggiunto anche del suo, nondimeno restano le questioni per chi ricerca l’intenzione, e di coloro che consacrarono, e dell’aggiunta del poeta, giacché gli antichi non consacrarono alcun tempio senza simboli mistici, né Omero a questo riguardo ci riferisce alcunché a caso. Quanto più uno si sforzi di dimostrare che le cose riguardanti l’antro non sono invenzione di Omero, e che questo prima di Omero fosse già dedicato agli dèi, tanto più [questo] monumento si scoprirà pieno dell’antica saggezza; e per questo vale la pena investigare, anzi è necessario esporre in sé la simbolica [sua] consacrazione.

V

Dunque, gli antichi consacravano convenientemente gli antri e le caverne al mondo, considerato sia nella sua totalità, sia nelle sue parti, attribuendo alla terra il simbolo della materia di cui il mondo è composto; perciò taluni ne inferivano pure che la terra fosse materia, e che gli antri significassero che il mondo viene dalla materia.

Poiché generalmente gli antri [hanno] formazione spontanea e sono congeniti alla terra; racchiusi in una roccia uniforme, concavi all’interno, si spingono all’esterno verso l’indefinito [spazio] della terra. Il mondo generatosi e cresciutosi da sé è affine alla materia, che sasso e pietra chiamavano metaforicamente, perché grezza e resistente [all’impronta] della forma, e ritenevano [inoltre] per la sua mancanza di forma infinita. Ed essendo fluida e priva in sé della [determinazione] formale, per la quale si plasma e si manifesta, prendevano come cosa conveniente l’umido stillante degli antri e l’oscuro e, come dice il poeta, tenebroso, a simbolo di ciò che è nel mondo per la materia.

VI

Da una parte dunque, il mondo a causa della materia, è tenebroso ed oscuro, dall’altra, per il congiungimento della forma [alla materia] e l’ordinamento dal quale trae anche il nome di ornamento, è bello ed amabile. Donde con proprietà si poté chiamarlo antro: ameno, per colui che lo consegue rettamente per partecipazione delle forme; tenebroso per colui che cerchi di scrutarne e penetrarne con la mente l’infimo fondamento. Cosicché le cose che si trovano fuori, alla superficie, sono amabili, mentre quelle che sono all’interno, in profondità, tenebrose.

Così i Persiani iniziano il miste istruendolo sulla discesa delle anime sottoterra e sulla nuova uscita, dando il nome di caverna al luogo. Da principio, come dice Eubulo4 , quando Zoroastro consacrò una caverna naturale sui monti vicino alla Persia, florida e ricca di sorgenti, in onore di Mithra, fattore e padre di tutte le cose, la caverna costituiva per lui una immagine del mondo, che Mithra creò, giacché le cose che vi erano disposte ad intervalli appropriati, portavano i simboli degli elementi e delle regioni del mondo.

Dopo questo Zoroastro, invalse l’uso anche presso gli altri di compiere i riti iniziatici in antri e caverne, sia naturali, sia costruiti da mano umana. Infatti, come agli dèi celesti si innalzavano santuari, templi ed altari, ai terrestri ed agli eroi are, ai sotterranei buche e sacrari, cosi al mondo antri e caverne; parimenti poi alle Ninfe: a causa delle acque che stillano o scaturiscono negli antri, ed alle quali presiedono le ninfe Naiadi, come esporremo tra poco.

VII

Non solo, come dicemmo, facevano dell’antro un simbolo del mondo sensibile, ma lo assumevano anche a simbolo di tutte le invisibili potenze, per il fatto che gli antri sono oscuri: così non appare la sostanzialità delle potenze. Dunque, anche Kronos si prepara un antro nell’oceano e vi nasconde i suoi figli, parimenti Demeter alleva Kore in un antro tra le Ninfe; e molte altre cose di questo genere si ritroverebbero scorrendo le opere di coloro che parlano delle cose divine.

VIII

Del resto, [si sa] che gli antri erano consacrati alle Ninfe, e tra queste soprattutto alle Naiadi
che si trovavano presso le sorgenti, e traggono il loro nome dalle acque dalle quali sorgono
fluenti; e lo attesta anche l’inno ad Apollo, nel quale si legge:

Per te aprirono le sorgenti delle acque dell’intelletto che dimorano negli antri,
alimentate dall’alito della terra
per l’ispirato oracolo della Musa;
esse sgorgando sulla terra…
senza posa porgono ai mortali brocche [colme] delle dolci correnti.

Da qui, credo, presero le mosse anche i Pitagorici; e, dopo questi, Platone rappresentò il mondo come un antro o una caverna. Perciò in Empedocle le potenze conduttrici delle anime dicono:

Ecco, siamo giunte nell’antro coperto.

In Platone, nel settimo libro della Repubblica, si legge: “Ecco infatti gli uomini in un antro sotterraneo, in una dimora simile ad una caverna, che abbia l’ingresso aperto alla luce esteso quanto tutta la caverna”5 . E rispondendo l’interlocutore: “Strana figura tu esponi”6 , soggiunse: “È necessario dunque, mio caro Glaucone, adattare questa figura a quanto dicevamo prima: paragonando la sede che si rivela attraverso gli occhi, ad una prigione, la luce del fuoco in sé, alla potenza del Sole.”7.

IX

Da ciò è dunque provato che coloro che si occuparono delle cose divine, consideravano gli antri quali simboli del mondo e delle potenze universali, ma anche, come già si disse, dell’essenza intelligibile, spinti [a ciò], certamente, da diverse e differenti ragioni.

In effetti gli antri erano considerati [come simbolo] del mondo sensibile, per il fatto che sono oscuri, petrosi, umidi; e tale è il mondo, a causa della materia di cui è costituito, che è resistente [alla determinazione] e fluida.

Ma anche dell’intelligibile, perché non cade sotto il dominio del senso, e per la solidità e la stabilità dell’essenza; così anche le potenze particolari non sono percettibili, soprattutto quelle che si trovano nella materia. Infatti, gli antri erano ritenuti simboli in conformità [alle modalità]: naturale, notturna, oscura, petrosa; ma niente affatto rispetto alla forma, come taluni pensavano, perché non tutti gli antri sono sferici come quello che in Omero ha due entrate.

X

Poiché l’antro ha [per definizione] duplice aspetto, non solo lo prendevano come sostanza dell’intelligibile, ma anche come essenza del sensibile; così quello ora considerato, per il fatto di
avere acque sempre scorrenti, non potrebbe affatto essere simbolo della realtà intelligibile [in sé], poiché supporta quello della forma congiunta alla materia. Perciò non è sacro alle Ninfe dei monti né [a quelle] delle cime o ad altre del medesimo genere, ma alle Naiadi, che traggono il loro nome dalle fonti.
Ora, noi chiamiamo ninfe Naiadi in modo particolare quelle potenze che sono preposte alle acque, mentre [loro] chiamavano anche insieme le anime cadute nella generazione. Si riteneva infatti che le anime seguissero l’acqua; la quale è [esistenziata] dallo spirito divino, come dice Numenio; per questo afferma, anche, che il Profeta disse: “Lo spirito di Dio aleggiava sull’acqua”8.

Per questa ragione gli Egizi non collocavano su [una base] solida tutti i demoni, ma li collocavano su di un naviglio; e anche il sole e, in breve, si deve sapere, tutte quelle anime che, cadute nella generazione, vengono avvolte dall’umido. Donde Eraclito: “Alle anime sembra diletto non morte il divenire umide: la caduta nel divenire è per loro diletto”. E altrove: “La nostra vita sembra la loro morte, e la loro vita la nostra morte”. Perciò il poeta chiama umidi coloro che si trovano nel divenire, dato che le [loro] anime sono pervase dall’umido. Perché a queste riesce caro il sangue e l’umido seme, mentre a quelle delle piante l’acqua è di nutrimento.

XI

Del resto, taluni sostengono che gli esseri dell’aria e del cielo si nutrono dei vapori umidi, [che si liberano] dalle fonti e dai fiumi, e delle altre esalazioni. Parve poi agli Stoici che il sole si nutrisse delle esalazioni del mare, la luna di quelle delle acque delle sorgenti e dei fiumi, gli astri dell’esalazione della terra. E per questo il sole trova la sua esistenza quale massa di intelletto accesa dal mare, la luna dalle acque dei fiumi, e le stelle dall’esalazione della terra.

Ne consegue di necessità che le anime sono o corporee o incorporee: così, quando attirano un corpo, soprattutto quelle che devono essere imprigionate nel sangue e in umidi corpi, volgono verso ciò che è umido e prendono corpo inumidendosi. Perciò quelle di coloro che sono morti vengono evocate con l’effusione e di bile e di sangue, e quelle che amano il corpo, attirando l’umido spirito, lo condensano in guisa di nube: perché l’umidità condensata in aria forma la nube; ed essendosi condensato in esse lo spirito per eccesso d’umidità, diventano visibili. Tra queste sono quelle che, per aver contaminato lo spirito, si danno nella fantasia di taluni con l’aspetto di fantasmi; tuttavia, quelle pure sfuggono alla generazione. E lo stesso Eraclito disse: «L’anima secca è molto saggia». Perciò anche qui lo spirito diviene umido e più molle per il desiderio d’intima unione, quando l’anima attira il vapore umido per l’inclinazione alla generazione.

Note

∗ Alcune delle note al testo, contrassegnate con asterisco (*), sono state trascritte dal Commento a PORFIRIO, L’Antro delle Ninfe, a cura di Laura Simonini, Adelphi, Milano, 2010.
1 Odissea, XIII, 102-112.
2 Amico e seguace di Numenio d’Apamea.

3 Artemidoro di Efeso, geografo vissuto tra il II e il I secolo a.C., autore delle Geographoumena, opera in 11 libri.

4 Ricordato altrove [De abstinentia, 4, 16] da Porfirio, come autore di una ricerca su Mitra.

5 Repubblica, 514a.

6 Repubblica, 515a.

7 Repubblica, 517ab.

8 Genesi, 1, 2.

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